mercoledì 3 ottobre 2012

Il Manifesto dell'Essere

Erich Fromm, dal Social Network Decrescita Felice

Su questo argomento basai il mio tema all'esame di maturità, assai deludente per tutto il resto ma che mi permise di ottenere il quarantotto finale. Lessi "Avere o Essere?" di Erich Fromm  il giorno prima della prova di italiano e mi portai dietro il libro da tenere sotto il banco tanto che ne citai per intero la frase finale di Albert Schweitzer:

"Le nostre coscienze non possono non essere scosse dalla constatazione che, più cresciamo e diventiamo superuomini e più siamo disumani......."

Fu una formidabile intuizione quella che un libro del genere mi avrebbe salvato in ogni occasione e visto che il titolo verteva sulla "classe operaia" riuscii ad elaborare una quasi "mistica" previsione del futuro: sì all'emancipazione del proletariato, ricordiamoci che eravamo negli anni settanta, ma attenzione a non dimenticarsi che assieme alla cultura dell'avere dovevamo camminare di pari passo con una cultura dell'essere.
Ieri sera, dopo aver visto la trasmissione Ballarò, sono andato a letto sconcertato e umiliato da quanto ho ascoltato e se il sentimento che provo verso tutta la classe politica che ci governa è quanto meno di disgusto non posso fare a meno di considerare che tutto ciò è il frutto della nostra cultura, la cultura dell'avere che ha pervaso questa società proprio dagli anni settanta in poi.
Come riportato in un bell'articolo che ho letto nel Social Network Decrescita Felice, estraggo la parte che va per punti in cui vengono stilate le caratteristiche che dovrebbe riscoprire l'Uomo se vuole continuare a vivere nel rispetto di se stesso e della Terra, secondo Erich Fromm:

  • Disponibilità a rinunciare a tutte le forme di avere, per essere senza residui. 
  • Sicurezza, sentimento di identità e fiducia fondati sulla fede in ciò che si è, nel proprio bisogno di rapporti, interessi, amore, solidarietà con il mondo circostante, anziché sul proprio desiderio di avere, di possedere, di controllare il mondo, divenendo così schiavo dei propri possessi. 
  • Accettazione del fatto che nessuno e nulla al di fuori di noi può dare significato alla propria vita, ma che questa indipendenza e distacco radicali dalle cose possono diventare la condizione della piena attività volta alla compartecipazione e all’interesse per gli altri. 
  • Essere davvero presenti nel luogo in cui ci si trova. 
  • La gioia che proviene dal dare e condividere, non già dall’accumulare e sfruttare. 
  • Amore e rispetto per la vita in tutte le sue manifestazioni, con la consapevolezza che non le cose, il potere e tutto ciò che è morto, bensì la vita e tutto quanto pertiene alla sua crescita hanno carattere sacro. 
  • Tentare di ridurre, nel limite del possibile, brama di possesso, odio e illusioni
  • Sviluppo della propria capacità di amare, oltre che della propria capacità di pensare in maniera critica senza abbandonarsi a sentimentalismi. 
  • Capacità di rinunciare al proprio narcisismo e di accettare le tragiche limitazioni implicite nell’esistenza umana. 
  • Fare della piena crescita di se stessi e dei propri simili lo scopo supremo dell’esistenza. Rendersi conto che, per raggiungere tale meta, sono indispensabili la disciplina e il riconoscimento della realtà di fatto.
  • Rendersi inoltre conto che una crescita non è sana se non avviene nell’ambito di una determinata struttura, ma in pari tempo riconoscere le differenze tra la struttura intesa quale un attributo della vita e l’”ordine” inteso quale un attributo della non vita, di ciò che è morto. 
  • Sviluppare la propria fantasia, non come una fuga da circostanze intollerabili, bensì come anticipazione di possibilità concrete, come un mezzo per superare circostanze intollerabili. 
  • Non ingannare gli altri, ma non lasciarsene neppure ingannare; si può accettare di essere definiti innocenti, non ingenui. 
  • Conoscere se stessi, intendendo con questo non soltanto il sé di cui si ha nozione, ma anche il sé che si ignora, benché si abbia una vaga intuizione di ciò che non si conosce. 
  • Avvertire la propria identità con ogni forma di vita, e quindi rinunciare al proposito di conquistare la natura, di sottometterla, sfruttarla, violentarla, distruggerla, tentando invece di capirla e di collaborare con essa. 
  • Far proprio una libertà che non sia arbitrarietà, ma equivalga alla possibilità di essere se stessi, intendendo con questo non già un coacervo di desideri e brame di possesso, bensì una struttura dal delicato equilibrio che a ogni istante si trova di fronte alla scelta tra crescita o declino, vita o morte. 
  • Rendersi conto che il male e la distruttività sono conseguenze necessarie del fallimento del proposito di crescere. 
  • Rendersi conto che solo pochi individui hanno raggiunto la perfezione per quanto attiene a tutte queste qualità, rinunciando d’altro canto all’ambizione di riuscire a propria volta a “raggiungere l’obbiettivo”, con la consapevolezza che un’ambizione del genere non è che un’altra forma di bramosia, un’altra versione dell’avere. 
  • Trovare la felicità nel processo di una continua, vivente crescita, quale che sia il punto massimo che il destino permette a ciascuno di raggiungere, dal momento che vivere nella maniera più piena possibile al singolo è fonte di tale soddisfazione, che la preoccupazione per ciò che si potrebbe o non si può raggiungere ha scarse possibilità di rendersi avvertita.
Bé, questa è la risposta a tutto ciò che abbiamo vissuto, sentito ed ascoltato in questi ultimi vent'anni della nostra storia, certo non siamo passati attraverso la violenza e la disperazione che hanno vissuto i nostri genitori e i nostri nonni con le grandi guerre ma di sicuro le nostre anime si sono svuotate dei valori rendendoci degli animali alla ricerca di quel cibo chiamato ricchezza, dimenticandosi cosa siamo: "uomini".

Anch'io ho fatto molti sbagli nella mia vita e non sono certo un santo, intravedo però di nuovo un cammino al quale ho creduto in giovane età.

Era proprio così la copertina del libro della Mondadori



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